Strip
serie
1015, 08/05/2021 - Abbassare la radio
1015
08 . 05 . 2021

I Primi Videogiocatori, pt. III

Se questo sito ha vent'anni significa che noi che lo facciamo non abbiamo più vent'anni.
Facciamo FTR da metà delle nostre vite, sin da quando avevamo a malapena l'età legale per girare i film porno. Vorrà pur dir qualcosa.
Ma i decenni non hanno fatto morire dentro di noi gli scherzi stupidi, le battute da Ingegneri delle Tenebre che mettiamo nero su bianco una volta a settimana, come questa settimana, marciando imperterriti senza curarci di nulla e nessuno. In questi vent'anni tutto è cambiato: internet attorno a noi è scivolata nella follia e nella nevrosi, ma anche questa tana di coniglio ne ha passate tante.
La prima strip di Follow The Rabbit è stata disegnata a matita su un foglio di carta e poi ricalcata con un pennino a china e poi scansionata con uno scanner e poi ritoccata con una copia di Photoshop craccata installata da un CD con la CD Key scritta sopra a pennarello e poi caricata su un server via FTP. In formato GIF.
La strip di oggi è stata fatta con un procedimento che non ha più quasi nulla in comune con quello di allora. Ma noialtri siamo ancora qui, e l'atto di produrre una strip a settimana, una strip purchessia, quello ci accompagna invariato da vent'anni. Per qualche strano motivo, non ne vado fiero.

Ma basta parlare di noi, di questa squallida tana di coniglio e dei vecchi conigli non più ventenni che la abitano. Ci sarebbe da parlare di videogiochi, come da vent'anni a questa parte, e capite che la cosa ci mette un po' a disagio.
È vero che rientriamo ancora in pieno nella fascia demografica dei Videogiocatori™, ma c'è il trucco: quella fascia demografica si sta espandendo un anno dopo l'altro, per accompagnare la nostra generazione che invecchia (e magari un'altra prima di noi)... perché noi siamo i favoleggiati Primi Videogiocatori. “Quando vedemmo che i nostri sogni tardavano a realizzarsi passammo alle fantasie, affidando loro le nostre gioie e speranze. Diventammo videogiocatori, ormai molte ere fa” eccetera, eccetera... ci è toccato un fato glorioso, che ben si presta alla mitopoiesi.
E dunque siamo ancora maledetti Gamer™ a pieno titolo, OK, ma c'è il trucco.
Non crediate che non ce ne rendiamo conto, di assomigliare sempre più al Signor Burns che si atteggia ad adolescente con la maglietta di Stecco.
Per fortuna non soltanto la fascia demografica, ma anche i giochi stessi si sono allargati in un abbraccio per continuare a cullarci, premurosi e falsi come meretrici. Tanti giochi toccano vette di lirismo e arte che non ci fanno rimpiangere il tempo che passiamo là davanti. (Mi viene in mente Death Stranding, così, perché è un po' che non lo citavo.)
Però, però, però ci sono anche tanti giochi che se sbattono di noialtri vecchiacci: gli sparatutto competitivi online, i DOTA e i LoL e forse anche i Souls non sono certo un Paese per Vecchi.
E allora mi fanno tenerezza i nostri coetanei come il buon Tommaso Valentini (età: 39,9999999 anni) che poveretto ci prova, ma streammare alle 10 di sera dopo una giornata di lavoro e farsi strapazzare a un Battle Royale da ragazzini coi riflessi fulminei che si allenano 8 ore al giorno... no, dai, è troppo crudele. Naturalmente ho trovato molto interessante quella video/confessione in cui si mostra acutamente consapevole di non avere più la prestanza videoludica di un tempo, e si chiede se davvero siamo arrivati al punto che certe esperienze videoludiche ci sono precluse.
E come lui ci sono tanti altri della vecchia guardia, firme di riviste videoludiche anni '90, volti sbarbatelli su foto di gruppo redazionali, The Games Machine e Multiplayer.it (con cui noialtri siamo legati personalmente, come ricordavamo tempo fa).
Massì, hanno esperienza e sanno parlare (qualcuno sa persino scrivere)... ma mai sottovalutare la pura e semplice forza della gioventù, stupida e ignorante fin che volete.
Solo che noi siamo ancora qui. E non abbiamo voglia di scansarci. E se non troviamo spazio dovremo prendercelo, come abbiamo sempre fatto.

Lo-Rez: arte, storia, web design
08 . 05 . 2021

Sono così indie

Installare i giochi gratis Epic, come ho già avuto modo di dire, è già un divertimento di per sé, però ti espone a massicce dosi di indie fabbricati con Unity e a furia di vedere certi giochi è cominciata a salirmi una certa "carogna", un'irritazione di fondo che mi ha fatto esclamare "emmobastaveramente".
Il gioco che ha proprio fatto scattare questa molla è The First Tree. The First Tree è un platform in cui interpretiamo una volpe in cerca dei suoi cuccioli, cosa che non sarebbe affatto male, se non fosse che in realtà la storia è una metafora della lotta del protagonista reale (che racconta il viaggio della volpe come un sogno) contro gli incubi del suo passato e il dolore dei suoi ricordi. Ecco, di queste cose, personalmente, non ne posso più.
Intanto vediamo come va con The First Tree. Sostanzialmente tu vieni scaraventato in un ambiente bucolico e poetico che nelle foto uscirà pure bene, ma che in realtà si vede benissimo che è uno scenario Unity base. Vai in giro con la tua volpetta a raccogliere delle stelline come in qualsiasi Super Mario. Ogni tanto ci sono dei punti, evidenziati sullo scenario, dove ti viene permesso di scavare. Quando scavi parte, sopra il tuo continuo vagare volpino, un dialogo tra il protagonista di cui sopra e la sua interlocutrice in cui lui comincia a snocciolarti eventi tristi della sua vita. Tu, intanto, continui a cercare di divertirti facendo caracollare la bestiola, almeno finché non ti accorgi che più che caracollare la bestiola non fa. A quel punto scatta l'epifania e capisci che per godert il gioco dovresti piantarla di cercare di saltare sulle piattaforme e dovresti veramente interessarti al fatto che il padre povero del protagonista gli intagliava i giocattoli di legno a cui teneva tanto e poi i bambini a scuola lo prendevano in giro. Arrivato a questa conclusione ho disinstallato tutto.
Con l'avvento dei giochi indie, innegabile, è nata un'idea del videogioco come nuovo mezzo di comunicazione in cui l'interazione poteva essere costruita ortogonalmente alla trasmissione di messaggi. E' così nato il gioco che è "pura poesia" (semi-cit) e all'inizio, cioè parliamo di quando l'intero mercato indie è sorto, è stato sicuramente una ventata di aria fresca in un mondo che andava appiattendosi sui triplaA tutti uguali e poco altro. Con l'andare avanti del tempo, però, e magari anche con la standardizzazione di Unity, comincia ad affiorare l'idea che chiunque abbia una qualche idea filosofica, non potendo riprodurla in altri media, ci fa un videogioco appiccicando del gameplay qualsiasi alla sua metafora e lasciando che la sua intuizione grandiosa prenda un po' il sopravvento su quella che dovrebbe essere la costruzione artigianale di un prodotto d'intrattenimento elettronico.
Cominciamo col mettere certi paletti: la metafora, quella cruda, quella che va a mapparsi uno a uno su un altro concetto, con tanto di continui richiami espliciti, ecco, quella roba là non è mai stata buona narrativa, anzi, è sempre stato un errore un po' ingenuo da narratori alle prime armi. Quando hanno cominciato a usare questo espediente nei videogiochi non è stato mica un male, eh, cioè, pensate a una saga come quella di Kingdom Hearts. Lì tutto, in realtà, è stato scritto come metafora di qualcos'altro. Perché allora lì si può? Perché Kingdom Hears è innanzitutto un ottimo videogioco ed è un pastiche comunque molto coerente di universi narrativi. Con tutta quella massa ingombrante di materiale immaginifico da gestire e in più una certa necessità di gameplay creare una metafora che, sottotraccia, tiene in piedi la narrazione è un'ottima soluzione, anzi, è un valore aggiunto a una storia che è strettamente, potentemente videoludica. I giochi indie, però, non sono Kingdom Hearts, un po' perché gli autori non sono Square/Enix (eh!) un po' perché la metafora è spesso molto pericolosamente vicina a essere il loro scopo ultimo cioè il punto di partenza della loro progettazione. A questo punto, quindi, quello che ci viene presentato è il videogioco come un prodotto esplicitamente narrativo e in questo contesto la metafora schietta (cioè non affondata sotto tre strati d'interpretazione, ma vicino alla superficie) è un errore da dilettanti. E partendo da questo presupposto poco mi interessa se vorrebbe incarnare il tentativo di processare un qualche dolore esistenziale o il mezzo per guarire una qualche ferita profonda, non è che più matura diventa la storia sottesa più potente diventa raccontarla. Se il racconto è fatto male non è certo il tema morale a risollevare le cose.
Celeste, per esempio, è un ottimo esempio di come si fanno le cose per bene. Celeste è un platform, lo è endemicamente, è un ottimo platform. A questo punto se vuoi che il giocatore si impegni a risolvere il platform va benissimo che la montagna sia metafora del male di vivere di Celeste, perché la metafora in questo caso non è raccontata, è vissuta. Questa è la potenza dei videogiochi: la possibilità di trasmetterti sensazioni con delle interazioni. Se la tua metafora è ciò che il giocatore gioca allora va benissimo perché ciò che accade a schermo e ciò che racconti si trovano su livelli indifferenti e le due cose si arricchiscono a vicenda. Se la tua idea di trasmettere sensazioni però è far partire pistolotti mentre su schermo sto facendo tutt'altro forse non hai capito bene qual era l'obiettivo del compito a casa.

Bene. Esaurito questo (primo) sfogo sul mondo dei videogiochi odierni direi di poter dire di aver fatto il mio dovere settimanale e di aver riempito l'editoriale in maniera consona. Prima di lasciarvi, però, ci tenevo a segnalarvi Manettini, la Newsletter del Post dedicata ai videogiochi. La qualità giornalistica del Post (caso raro) la conosciamo un po' tutti e trovo utile che esista una voce, sul mondo del videoludo, che sia un po' fuori dalle logiche della stampa di settore (di cui parliamo noi stessi non benissimo, spesso). Personalmente ho letto il primo numero e mi è piaciuto perché ha accennato ad alcuni temi in retrospettiva (un po' come facciamo qui), ma non ha mancato di tenere un occhio sul presente, senza scadere nell'essere un elenco di titoli legati da incontrollati vagiti di entusiasmo. Poi, oh, ci sarebbe da obiettare che io, i controller, non li ho mai chiamati manettini, ma qui andiamo un po' troppo nel problema linguistico.

“Il liberismo, naturalmente, era morto di antrace, ciò nondimeno non si potevano fare le cose per forza.”

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