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serie
684, 04/10/2014 - Senso di colpa
684
04 . 10 . 2014

Tokyo

Nel dicembre 2005, in questa strip della nostra serie GTR, disegnavo una veduta di Akihabara, Tokyo, faticosamente ricostruita da un collage di fotografie prese qua e là. Perfino internet era di legno, a quel tempo.
Avanti veloce fino a questo settembre 2014, e svoltando un angolo mi trovo di fronte, inaspettatamente, proprio a quell'edificio così caratteristico del Quartiere Elettrico di Tokyo... quello con le scale esterne che attraversano in diagonale tutta la facciata.
Non so se nel 2005 avrei creduto che un giorno mi sarei trovato davvero là, in carne ed ossa. E invece ora ecco la prova fotografica, a testimoniare che non ho avuto un'allucinazione. O, se anche l'ho avuta, perlomeno mi trovavo in Giappone.

Le sale giochi esistono ancora, laggiù. Per trovarle bisogna salire anonimi ascensori e aprire alla cieca porticine senza insegne (la terza dimensione nella topografia di Tokyo è importante quanto le altre due, se non di più), ma ci sono.
Il piano terra è riservato alle masse ignoranti, che hanno ormai colonizzato il settore del divertimento elettronico qui come altrove: è il regno dei Dance Evolution, dei soliti giochi di tamburi e delle macchine infernali per la pesca dei pupazzi. Salendo si incontrano le rumorose sale da pachinko, poi interi piani consacrati alle scommesse ippiche virtuali. I giochi veri, quelli per i duri e i fanatici, sono relegati sempre più in alto nello spazio tridimensionale della megalopoli, negli strati alti dell'atmosfera di Tokyo fatti di pali della luce mostruosi e cartelloni pubblicitari con gigantografie di Rei Ayanami (sempre lei, alla faccia di Asuka). Ma ci sono davvero, e a scuotere quelle levette ci sono davvero mani esperte. Gente che ti fa venire il terrore di veder comparire la scritta NEW CHALLENGER mentre stai giocando tranquillo, perché sai già che c'è una belva sanguinaria dall'altra parte del cabinato (in Giappone le postazioni per il gioco doppio non sono di fianco ma una di fronte all'altra).

Il Tokyo Game Show occupa uno spazio fisico non molto più grande di una qualunque Gamesweek nostrana (e certamente molto più ridotto del Lucca Comics). Ma non ho potuto restare deluso da questa sproporzione tra lo spazio fisico e lo spazio dei miei sogni, perché subito sul palco della Konami è entrato in scena correndo Hideo Kojima, con il tatuaggio dei Diamond Dogs e gli stivaletti di pelle, e io come tutti sono stato travolto da una marea umana che confluiva verso di lui.
Vedere Kojima non in un'immagine mediata da uno schermo, condividere il suo stesso spazio fisico è stata un'emozione che mi imbarazza un po'. Se non altro ero in buona compagnia, con almeno un milione di musi gialli attratti irresistibilmente verso quel palco da ogni angolo della fiera, pronti a esplodere di esultanza quando succedeva qualcosa di strafigo nella dimostrazione in diretta di Metal Gear Solid 5. E di cose strafighe ne sono state fatte molte, in quella dimostrazione.
In sostanza, Kojima ha stravinto questa edizione del TGS. La non-presenza di Final Fantasy XV ha contribuito senz'altro: era tale la crisi d'astinenza dei nostri amici nipponici che perfino una vaccata per smartphone come Final Fantasy World Wide Words bastava a scatenare scene d'isteria collettiva, con le standiste di SquareEnix prese d'assalto da un esercito di fotografi sbavanti, letteralmente in ginocchio ai loro piedi (letteralmente) per avere una foto insieme a loro. Non parliamo poi della fila di 40 minuti solo per guadagnare l'accesso al chiosco che vendeva le colonne sonore di Final Fantasy.

Potrei andare avanti all'infinito descrivendo la sovrannaturale capacità dei giapponesi di disporsi spontaneamente in file ordinate (che fa sembrare una passeggiata rilassante perfino Hachiko-Mae, l'incrocio pedonale più trafficato in una città di 35 milioni di persone). Oppure il cibo, che a volte proprio non si riesce a prendere sul serio. O la moda di strada, che è molto più bizzarra del cosplay. O i maid café, per l'amor del cielo. Potrei, ma basta così.

Lo-Rez: arte, storia, web design
04 . 10 . 2014

La luce di Gundam

Difficile non insultare le interfacce, al giorno d'oggi. Il fatto che loro siano indifese, non possano reagire e, soprattutto, continuino a comportarsi male qualsiasi cosa gli dici, rende sicuramente farlo più facile. Ma all'azienda di Neo e Godel questi semplici principi non sempre sono chiari.

Per Aldnoah Zero potrebbe valere quanto dissi per Wixoss, una serie troncata brutalmente al finire dei suoi dodici episodi che aspetta disperatamente di avere un seguito. La recensione però la merita un po' di più perché, nel suo piccolo, un finale lo ha avuto, anche di una certa incisività, e ci sono come al solito un mucchio di cose da dire.

Come immagino avrete imparato seguendomi, le serie anime di robottoni sono fortemente ingabbiate in una rigida tassonomia che permette subito di individuare a quale sottogenere appartengono. Aldnoah Zero è una serie Uomini vs Uomini delle colonie, un genere nobile, se pensiamo che lo inventò il mai abbastanza amato Gundam. E da Gundam sono molte le cose che discendono: le colonie sono piene di rancore come i peggiori Zioniti, hanno una tecnologia superiore e devastante e sono come di consueto regredite al 1700.
Se vogliamo, rispetto al rapporto con Gundam, ci sono anche altre aspetti simili fino all'inquietante, come per esempio la grande nave volante recuperata accidentalmente che vaga per la terra con un equipaggio di giovinetti, ma su altri aspetti lo scostamento è notevole, come per esempio il fatto che non abbiamo un robottone buono protagonista, ma anzi quelli usati dai personaggi principali sono dei veri e propri rottami.
E qui, se vogliamo, cominciano le magagne. Il divario tra i catafratti marziani e quelli umani è abissale. I marziani hanno delle macchine che volano, lanciano laser, modificano la gravità, si trasformano e usano spade. Gli umani hanno dei robi a pile che usano la fionda. Lo capirebbe anche un bambino che non ha proprio senso mettere in piedi delle battaglie con una tale disparità di forze, ma gli sceneggiatori lo fanno e, per far vincere comunque i buoni, mettono alla guida del robot umano più sfigato Inaho Kaizuka, anche detto "il McGyver del liceo" che oltre a comprendere a colpo d'occhio la tecnologia aliena riesce sempre a eliminare i nemici con dei contorti e astrusi piani che dimostrano che i marziani avranno si una tecnologia superiore, ma hanno anche degli ingegneri del menga.

Eppure questa non sarà la recensione rancorosa di qualcuno che giudica Aldnoah Zero brutto, perché forse Aldnoah Zero rischia di essere uno dei migliori anime di robottoni della stagione. Ci sono un mucchio di aspetti affascinanti, come il fatto che la Terra non è eccessivamente futura, ma è quella dei giorni nostri, con l'aggiunta di un po' di metallo, oppure per la cultura feudale marziana, pervasa del misticismo della luce di Aldnoah. Anche gli scontri, all'inizio, quando non è ancora chiaro che Inaho vincerà sempre andando a caccia di bug, possiedono la giusta adrenalina e la giusta epicità e le musiche di sottofondo aiutano a sostenere la tensione. Sullo scenario della trama generale, al solito, il fatto di avere a disposizione solo un troncone della storia e non tutta rende complicato esprimere un giudizio. Diciamo che la trama va avanti un po' a calci, a tratti, non in modo eccessivamente fastidioso, ma che a lungo andare può logorare l'economia del racconto.

Concludendo Aldnoah nei primi episodi mi ha suscitato lodi sperticate e paragoni altisonanti. Credevo in un nuovo Code Geass, come livello qualitativo. Nel suo procedere lo ho visto sdraiarsi con un po' troppa facilità sui cliché del suo genere e stentare nel fare il salto di qualità. Il finale, clamoroso anzichenò, lo guardo con un certo sospetto. Potrebbe permettere di riscrivere la seconda stagione con un impeto diverso, facendo tabula rasa di tutti i problemi della serie, o potrebbe essere solo un colpo di testa per spingere alla visione i bambini ingenui.

“Aya, Aya, we're alone / And there's no room here anymore / Aya, Aya, we're alone / And there's no room here anymore

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